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Il Disegno di Legge Zan contro l’omotransfobia e il ruolo degli psicologi

  • Immagine del redattore: Progetto Psicologia
    Progetto Psicologia
  • 21 set 2020
  • Tempo di lettura: 2 min

Di recente abbiamo assistito al dibattito relativo alla “Legge Zan”, ovvero il Disegno di Legge contro l’omotransfobia, proposto dal deputato del Partito democratico Alessandro Zan.

Il DdL, depositato il 1 luglio u.s. alla commissione giustizia della Camera, propone la modifica degli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, rispettivamente legge Mancino e Reale, che puniscono i reati e i discorsi d’odio fondati su caratteristiche personali quali la nazionalità, l’origine etnica e la confessione religiosa, mirando ad ampliare questo concetto e a individuare come atti discriminatori anche quelli basati “sul genere, orientamento sessuale o identità di genere”.

Se dunque il DdL dovesse essere approvato, nella fattispecie dei reati d’odio rientrerebbero anche quelli legati alla sfera sessuale in senso lato e sarà sanzionato sia chi commette gesti e azioni violenti di stampo omotransfobico sia chi istiga a compierli.

Nel testo viene proposta l’istituzione di una giornata nazionale contro l’omotransfobia (17 maggio) e la creazione di un fondo dedicato ai “centri antidiscriminazione e case rifugio” che offrono assistenza sanitaria e psicologica alle persone che, a causa del proprio orientamento sessuale, non riescono a trovare lavoro, non hanno casa o hanno subito violenze. A questo si aggiungono attività culturali, in contesti lavorativi e scolastici, e un monitoraggio condotto dall’Istat sull’andamento dell’omotransfobia nel nostro paese.

La necessità di istituire l’omotransfobia come reato specifico nasce da fatti di cronaca discriminatori e violenti rivolti alle persone LGBTQI+ che, ad oggi, sono ancora vittime di stereotipi socio-culturali che le definiscono “malate” e “contronatura”.

Le discriminazioni più gravi spesso si verificano proprio nelle famiglie che non accettano che un* propri* figli* sia omosessuale o non si riconosca nel sesso/genere biologico.

A tal proposito, laddove venga richiesto un aiuto psicologico, spesso si chiede al professionista di intervenire per “correggere” l’orientamento del* propri* figli*.

Il codice deontologico degli Psicologi italiani, all’articolo 4, è molto chiaro in tal senso: “Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità. Lo psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi.

Contro le terapie riparative si è espressa da tempo l’Associazione Americana di Psichiatria (APA) e, concorde con associazioni scientifiche ed enti di tutto il mondo, raccomanda a psicologi e psichiatri di affrontare il malessere accusato da alcune persone omosessuali con terapie supportive, accoglienti e non giudicanti. Alla base di tale disagio ci sarebbe infatti un conflitto interno tra l’orientamento sessuale e il contesto socio-culturale cui la persona appartiene – spesso tuttora affetto da discriminazioni e disapprovazione sociale – in grado di indurre nell’individuo uno stato di omofobia interiorizzata che svaluta pesantemente l’immagine che ha di sé, causando imbarazzo, vergogna, colpa e tendenze suicide.

Diventa allora eticamente necessario per i professionisti indirizzare la persona verso la consapevolezza di tale conflitto, aiutandola a superarlo e così liberarla da condizionamenti inconsapevoli e autodistruttivi. Dott.ssa Paola Amato

 
 
 

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